giovedì 17 luglio 2014

L'ultima dose

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Dario Rangella prende il telefono da sotto il letto, con le ultime forze compone il solito numero. Porca puttana ho bisogno di una dose oppure muoio. Il tipo dall’accento calabrese risponde prontamente.
Ok Dario puoi farcela. Adesso devi solo trovare il modo di scendere sulla strada senza che tua moglie ti scopra. Lo hai sempre fatto. Devi farcela; o così o schiatti.

La radio sveglia segna le 6. Il telefonino squilla. La suoneria è sempre quella: odiosa, carica di ansia, di paura. Ibrahim apre gli occhi di soppianto. Il solito brivido gli corre lungo la schiena, appesantisce la testa, le braccia, le gambe, tutto. Il telefonino continua a squillare. Merda, nessuno  è sveglio. Devo rispondere.
Solleva il telefono, risponde palesando il suo respiro affannoso.
« Pronto?»         
« Palazzina 11 b, In via Ulisse Rocchi, al primo piano. Vi aspetta un certo Dario Rangella. Vuole 3 grammi. Alzate le chiappe.»
Ibrahim cerca di chiudere la chiamata, il tasto rosso è difficile da premere. Come al solito il tremore alle mani non si ferma. Ogni minimo gesto sembra pesare una vita.
« Ibrahim sei ancora lì?» Il telefono ancora parla.
« Si.»
« Se tutto va bene oggi è la tua ultima volta. Con i soldi che ci porterete  possiamo liquidare la tua quota.  Non fare stronzate.»
La linea telefonica si interrompe. Un lungo beep scuote i suoi pensieri e le sue speranze.


Fatti coraggio, é la tua ultima volta. Hai combattuto 3 anni per questo. La tua famiglia ti aspetta. Lo devi fare per loro, anche questa volta. Un ultimo sforzo e potrai andarli a prendere. Li porterai via da lì. Tuo figlio merita di meglio che sentire bombe intorno a sè tutto il giorno. Da qui è nato tutto e da qui tutto finirà, deve essere così.
Questo dice a sé stesso nella propria lingua mentre chiude il telefono con una nuova sicurezza. I compagni ancora dormono. In quello scantinato non c'è mai un filo di luce. Tutto sembra immobile, tutto fa paura. Tre letti intorno a lui, disposti lungo i muri della stanza quadrata. Un televisore, un divano sfondato di qualche vecchia signora passata a miglior vita. Una finestra, piccola, con le grate, come le sua speranza quando era arrivato in Italia. Accende l'unica luce che c'è nella stanza. Gli altri mormorano, cominciano a muoversi nei loro letti.
« Svegliate stupidi!. hanno chiamato. Noi avere lavoro da fare»
Li aveva conosciuti 3 anni prima. Era arrivato disperato nella capitale. Un tipo gli aveva fatto conoscere Abdul. Vieni con me, gli aveva detto, a Perugia c'è un sacco di lavoro. Così aveva viaggiato senza biglietto fino a quella strana cittadina. Gli avevano consegnato un telefono. Aveva conosciuto la voce del Boss, l'uomo che chiamava, di cui ancora non conosceva nome nè aspetto fisico. Quello che disse al telefono all'epoca come oggi gli bastava; era in grado di fargli una promessa: un periodo di spaccio, in cambio 20000 euro e un biglietto per andare a prendere la sua famiglia. Gli altri due si erano aggiunti qualche mese dopo. Erano in 4 ora.

L'aria pungente della mattina ravviva il suo sguardo. Non c'è nessuno per strada. Gli altri si mettono il cappuccio per non farsi riconoscere. Lasciato il primo vicolo incrociano una signora. Porta a spasso il cane.
La vecchia continua per la sua strada, non li degna di uno sguardo. Il cane abbaia. Rumore nella desolazione. Rumore che si disperde nella nebbia.
Abdul lo guarda con occhi gelidi. Dai suoi 190 cm lo scruta, cercando di capire il suo stato d'animo. Sa che è la sua ultima volta, é l'unico a saperlo, questione di fiducia. Gli fa un cenno d’intesa con la testa, lui risponde con un gesto freddo, malinconico: alza il pollice, come si usa fare da quelle parti. Lo fa abbassando i profondi occhi marroni.
Intorno al portone della palazzina sembra tutto vuoto. Tutto tace. Un colpo di vento muove una bottiglia di plastica, Ibrahim si gira di scatto e, inciampando su un paletto, cade a terra.
« Bruto coglione!. Se fai noi scoprire ti uccido.!» dice l’albanese.
Abdul lo guarda con aria fraterna. Lo aiuta a rialzarsi. Il Portone è di quelli nuovi ma non sembra che ci siano telecamere. Aspettano lì davanti per qualche minuto, ma non scende nessuno.  Suonano il citofono. Nessuna risposta. Il nero di cui non  ricordava mai il nome punta lo sguardo su Abdul.
« Cliente cambiato idea. Noi andare via .»
Ibrahim non riesce a smettere di battere i piedi a terra. Guarda con aria di sfida quel soggetto che vuole prolungare la sua agonia.
« Cosa tu dire.. Magari il citofono è rotto...   Magari tipo che ha chiamato boss è in astinenza e no riesce a scendere. Visto che è  primo piano proviamo vedere se essere qualche finestra aperta.»
« Vaffanculo. Così ci becano!.»
Abdul fissa la nebbia, non risponde. Tutti aspettano una sua indicazione. Decide lui, è sempre stato così.
<< Facciamo come dice Ibrahim.>>  Con la testa indica l’albanese : << Tu resta qui e fai guardia.>>
 Il destino manda un segno buono, un pizzico di fortuna: una finestra è aperta. Sembra quella del salotto. Ibrahim la indica agli altri. Senza parlare, con gesti di intesa, si accordano per l'ordine con cui entrare. Abdul va avanti. la finestra è stretta ma lentamente riesce a entrare.
Il nero è l'ultimo. Sembra andare tutto alla perfezione ma un rumore di passi gela il sangue di Ibrahim.
D'un tratto occhi ghiacciati si puntano su di loro; occhi che lasciano trasparire una certa rabbia. Una donna. Capelli neri e viso bello. Ha una mazza nelle mani.
Abdul cerca di restare calmo. Guarda i compagni sperando che nessuno di loro faccia gesti improvvisi. La donna all’improvviso parla.
« Brutti pezzenti,  lo so chi siete sa.. Come osate entrare in casa mia? Avete rovinato la vita di mio marito, la nostra vita..  e ora venite qui a spaventarci così? Non vogliamo avere più niente a che fare con quella roba. Mio marito non vuole niente, avete capito?! Andate subito via o chiamo la polizia e vi rispedisco al vostro paese.»
La voce della donna si alza, acquisisce tonalità maggiori ad ogni parola pronunciata. La paura avvinghia nella sua morsa Ibrahim e i suoi compagni. Lui non vuole arrendersi, non così, non ora. Cerca di far uscire parole dalla sua bocca, sembra la cosa più difficile che abbia mai fatto. Escono solo strani mormorii. Le gambe tremano.

Dario Rangella sente sua moglie urlare. Si lascia cadere dal letto e striscia lentamente, come un verme in agonia, verso la porta. Merda è chiusa a chiave, brutta stronza!. Cade a terra, privo di sensi.

Nel suo appartamento, due piani sopra, Achille Romagnoli guarda la televisione. Danno su Rai Sport la partita Italia - Germania dei mondiali del 2006. Gli capita spesso di dover combattere con l'insonnia. Quando stanco della battaglia si arrende, accende la televisione e aspetta l'arrivo del mattino. Questa volta gli è andata pure bene: il calcio è la sua più grande passione. Urla di una donna si sovrappongo al commento del favoloso gol di Fabio Grosso. Si affaccia dalla finestra e cerca di capire cosa sta succedendo. Si sentono solo grida. Qualche parola in un italiano scorretto gli basta per intuire quanto sta succedendo.
Eh no però! Dannati stranieri delinquenti e ladri!. Avete voluto rovinarmi questa mattina?!Per una volta che danno la partita dell'Italia in televisione per diamine ! Adesso vi faccio vedere io.
Alza la cornetta furiosamente. Preme i numeri con irruenza.
« Pronto, carabinieri»
« Si, salve, Vorrei fare una segnalazione ......»

Il suono delle sirene fa il suo ingresso nella scena come un fulmine che elettrizza gli animi. La nebbia attutisce il rumore e sfuma una visione incerta di quello che verrà. Il cuore di Ibrahim smette per un istante di battere, poi riprende a velocità tripla. Abdul li guarda. La paura lo avvinghia nel suo freddo morso. Cerca di restare sereno. È il capo lui, deve mostrarsi forte. Parole urlate in una lingua sconosciuta seguono a rumori di passi veloci. L’albanese lascia il suo posto di guardia sotto la finestra.
<< Bene, bene. Qualcuno da sopra deve avervi sentito. La fortuna oggi non è dalla vostra parte. Vi vengono a prendere. Adesso avete paura eh, razza di bastardi?! Voglio proprio vedere che gli raccontate a quelli.>>
La donna continua a urlare ma il suo sguardo assume un’aria di vittoria. Fa una leggera smorfia con la bocca e soffiando cerca di togliersi i capelli dal viso. Abdul guarda i suoi compagni e con un gesto indica la finestra dalla quale sono entrati. Le sirene cominciano a farsi più assordanti, più vicine. Abdul guarda l’amico. Si rivolge a quegli occhi color terra in modo fraterno. Uno sguardo che sa di mille ricordi; ha le sembianze di un addio, quelli che si dicono senza bisogno di parole. Poi in un attimo si dilegua nella nebbia, lasciando le tende della finestra a simulare la silenziosa tempesta. La donna assiste alla scena. Pensa che quello che sta succedendo non è giusto. Non possono scappare così. Devono pagare per quello che hanno fatto. Gli occhi ghiacciati si caricano di rabbia. Guarda il nero e lo assale. Seguono secondi di violenza, rumore di vetro che si frantuma,  catturati nello sputo di sangue che il nero getta all’aria cercando di rialzarsi sopra il tavolino rotto. La donna si ferma, aspettando una qualsiasi mossa dei due soggetti rimasti, qualcosa che la possa spingere a tirare fuori di nuovo quella rabbia che non le appartiene. Il nero la guarda con occhi rossi, con aria di superiorità e di beffarda indifferenza. Dice soltanto due parole: << Bruta putana!.>>. Poi con un gesto veloce, quasi impercettibile, estrae dalla cintura un coltello e colpisce la donna lì dove risiede il fulcro della vita. Occhi ghiacciati si spengono per accogliere il profondo nero. Colgono solo un’ultima esalazione di vita: iridi color terra fissi su di lei: lucidi, tristi, carichi di odio. Ibrahim prende la mazza della donna. Guarda il nero e lo colpisce con tutta la forza che ha in corpo. Le sirene fermano la loro scia di rumore. Ora sono fisse, martellanti come il suono della fine. Rumori di portiere che si aprono, di passi veloci. Il nero si solleva a fatica e si lascia cadere dalla finestra con una smorfia di dolore. Poi un tonfo atroce. Polvere sollevata dalla caduta del portone si deposita sui vestiti e sui capelli di Ibrahim. Lui resta immobile. Incapace di fare qualsiasi movimento; bloccato dalla speranza che muore tra il tremore delle sue gambe e i battiti del suo cuore. La mente lo porta su un pianeta lontano mentre si inginocchia a terra. Rumore bianco intorno a lui. Solo parole sfumate, un pianto assillante di una bambina. Occhi seri ora perforano il suo animo, occhi di chi vuole solo fare il suo dovere. Oggetti freddi legano le sue mani e stringono ai polsi. Ibrahim chiude gli occhi. Il resto è solo un urlo, cieco pianto.

In una stanza, molto lontana da quella casa, un bambino gioca con un pupazzo verde. Suo padre glielo ha spedito il giorno del suo compleanno, pochi mesi prima. Guarda fuori dalla finestra, sente bombe e vede il cielo azzurro sopra ogni cosa. Si chiede come può essere il mondo lontano da quel posto. Suo padre gli ha detto che là fuori c’è un posto migliore che li aspetta. Un giorno, presto, sarebbero partiti tutti insieme per esplorarlo. Così gli ha promesso. Lui si fida di suo padre;  sorride e continua a giocare con il pupazzo verde.

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